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Estate 2001

 Orsogna e la sua storia
 Il fenomeno migratorio a Orsogna
 
 

Orsogna e' caratterizzata da lunghe storie di miseria, di frustrazioni, di rari successi e di molte speranze, che non sono altro che l'esempio del dramma dei grandi flussi migratori che avvolsero tutto l'Abruzzo e che rappresentarono la liberazione da arcaiche miserie, da intendersi come corsa alla scoperta di nuovi mondi spesso piu' rassicuranti economicamente da parte di braccianti e contadini; e lo sradicamento da consuetudini, da abitudini, da costumi, che poi sono alla base delle culture di villaggio.
I racconti e le testimonianze partono da lontano, dal tempo in cui la maggior parte della gente viveva di stenti. Per i piu' poveri c'era la Pije, cioe' la Puglia, dove gli orsognesi, come tanti altri abruzzesi, effettuavano la cosiddetta emigrazione "rondella": a giugno per la mietitura e a novembre per la raccolta delle olive; e per coloro che invece possedevano le risorse necessarie per pagarsi il viaggio, c'era la Merica Annalla', il paese prospero, ricco, benevolo.
Emigrare significo' sopportare cose male, mortificazioni, privazioni, sfruttamento, lacerazione, pesantezza d'animo, ma anche attivare risorse incredibili di resistere. Emigrare significo' affrontare l'incognita della partenza e talora il coraggio del ritorno, segnato dal fallimento; lavorare anche il "giorno di Natale" nelle fogne di Brucciuline, o dormire dentro i tubi di cemento che servivano per la costruzione della rete fognaria, o recarsi "di notte, dinanzi alle grandi pasticcerie e prendere i sacchi contenenti i dolci scartati e bruciacchiati e inzupparli nel te'" per risparmiare i soldi del pranzo e della cena. Dietro queste testimonianze emerge anche che emigrare significo' mutare la propria concezione del tempo e dello spazio; cancellare tanti piccoli gesti quotidiani, come la sosta in piazza e all'osteria o nella bottega del sarto e del calzolaio; disabituarsi alla presenza dei rapporti caldi, del parentado e del vicinato, alla realta' del controllo vicendevole, delle chiacchiere e dei pettegolezzi che costituivano il microcosmo del paese; tradire la fedelta' ai propri cibi, e non assaporare piu' il bicchiere di vino "appena cacciato dalla botte". Per alcuni emigrare significo' tagliare con il passato, per altri invece significo' dollari e possibilita' di cambiare l'originaria mala sorte e attestare una realizzata ascesa di status, dimostrata dall'investimento dei risparmi capitalizzati all'estero nella terra e nella casa. La terra doveva servire ad emancipare la propria famiglia e a provvedere ai bisogni di tutte le famiglie che avrebbero avuto origine dalle progenie di colui che emigrava; ecco perche' non possedere la terra, non poterla donare in punto di morte ai propri discendenti, rendeva inutili, privi di valore, depauperati di tutto, disonorati. L'uomo, infatti, valeva per quel che possedeva, non per cio' che guadagnava; per questo la proprieta'che consentiva l'affrancamento derivante dal possesso di un bene proprio, e comprovava la lealta' all'etica del sacrificio ostinato e pertinace garantiva la sicurezza, e conquistava il rispetto dalla comunita'. La "terra promessa" rimaneva percio' il paese in cui si era nati e in cui "si voleva essere sepolti". Emigrare significo' inoltre produrre nuovi stili di comportamento e nuove esigenze, mescolare le classi e mettere punto alla distinzione fra li cafune ruzze e li cafune civile (piu' evoluti); significo' emancipare la donna, farle amministrare il denaro, impegnarla in lavori tipicamente maschili.

 

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